Cos'è
L’abbazia di Santa Giustina in accordo con il Centro storico benedettino italiano abbina il ricordo del centenario (1919) del ritorno dei monaci nella loro antica dimora, lasciata da oltre un secolo in seguito all’espulsione napoleonica, con il sesto secolo (1419) dalla fondazione della congregazione “De unitate” promossa dal proprio abate, Ludovico Barbo, di concerto con le abbazie di S. Giorgio Maggiore di Venezia, S. Maria di Badia di Firenze e S. Felice di Ammiana di Venezia.
Le due istituzioni monastiche italiane con il presente Convegno di studi intendono approfondire i motivi per cui i quattro abati fondatori presero l’iniziativa di unirsi allo scopo di immettere uno spirito nuovo nel vetusto ordine monastico di san Benedetto.
Gli studiosi si confronteranno su temi e argomenti riguardanti la genesi della riforma dell’osservanza, l’evoluzione di un tale progetto e la sua prodigiosa irradiazione.
Le felici soluzioni adottate e i provvedimenti emanati dai capitoli generali, sotto la spinta di un impetuoso incremento delle vocazioni (fondate su una solida spiritualità biblico patristica ma aperte alle istanze europee della “devotio moderna”), erano accompagnate da un esemplare stile di vita di tutti i suoi componenti, permettendo così una rapida diffusione della riforma che inglobò numerosissime abbazie italiane: fra tutte, quella di San Paolo fuori le Mura di Roma (1425). Così alla fine del secolo XV i suoi monaci avevano aggregato ben 44 abbazie della Penisola, cui all’inizio del secolo seguente fu significativamente aggiunto l’archicenobio di Montecassino (15,XI, 1504: bolla Super cathedram praeeminentiae pastoralisdi Giulio II), mutando la sua denominazione in Congregazione cassinese. Nel 1506 si unirono i numerosi monasteri della Sicilia.
Le riforme introdotte dall’abate Ludovico Barbo e dalla sua congregazione nella tradizionale struttura dei benedettini neri ebbero una ricaduta anche in altre istituzioni monastiche non solo italiane ma europee, favorite per questo dai romani pontefici a cominciare da Eugenio IV in poi, tanto che i monaci spagnoli di San Benedetto di Valladolid, i francesi di Chezal-Benoît, St-Vanne et St-Hydulphe, St-Maur, quelli tedeschi della congregazione di Bursfeld e gli ungheresi di Pannonhalma ottennero di modellare le loro costituzioni a quelle di S. Giustina. Anche i cistercensi di Castiglia e quelli italiani di S. Bernardo ne seguirono le orme riformatrici. Un analogo influsso fu esercitato, con scambio pure di monaci e di esperienze, presso i camaldolesi, i vallombrosani, i silvestrini e gli stessi celestini.
Il confronto che si istituirà tra i diversi studiosi non solo arricchirà la conoscenza del fenomeno riformistico monastico del Quattrocento ma contribuirà a sua volta a chiarire il ruolo assunto dai suoi membri nella Chiesa del Cinquecento in un clima intriso di umanesimo, di evangelismo e di fermenti rinascimentali che postulavano una sostanziale riforma della Chiesa nel capo e nelle membra. Tali istanze riformatrici ebbero il proprio approdo non tanto durante il concilio Lateranense V, quanto invece in quello di Trento, dove il monachesimo si presentò forte della propria profonda cultura biblica e patristica. Purtroppo tale indirizzo teologico, in dialogo con le istanze della Riforma protestante, fu perdente per l’irruente intransigenza della teologia scolastica, fondata su argomentazioni più filosofico-aristoteliche che biblico-patristiche.
Il rinnovamento della spiritualità monastica, condivisa con altre esperienze religiose, ebbe infine una ricaduta sia sulla cultura dei monaci, impegnati in quest’ultimo campo nella formazione intellettuale dei giovani professi, sia nell’allestimento e incremento di nuove biblioteche, sia nel fervore di committenze artistiche, che abbellirono i chiostri e i luoghi deputati all’assidua preghiera corale e alla celebrazione del sacrificio eucaristico.
La quattrocentesca riforma perseguita con tutte le forze dall’abate Barbo e dai suoi illuminati successori, approdata con pari fervore pure nell’inquieto mondo ecclesiale del Cinquecento, ha in ultima analisi incarnato quanto sapientemente ha indicato il fondatore e Patriarca Benedetto nella sua regola, vale a dire che «in ogni cosa sia glorificato Dio» (RB, 57,9).
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